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Il Santo Graal

Ultimo Aggiornamento: 14/04/2005 18:27
04/04/2005 17:27
 
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4 - Reliquie del Sangue

Nella cristianità esistono moltissime reliquie relative al Sangue di Cristo. Fondamentalmente sono di tre tipi: reliquie della Passione (il sangue che ha impregnato la Sindone, quello presente a Mantova e collegato alla lancia di Longino, ecc.); reliquie legate a miracoli eucaristici (il vino di Bolsena); e reliquie del sangue che sprizza da ostie o immagini consacrate.
Sia in Oriente che in Occidente moltissime chiese custodivano oggetti macchiati dal sangue del Signore. La maggior parte di questo patrimonio , peraltro di dubbia autenticità, è andata dispersa o è stata trafugata; in Francia, ad esempio, la guerra tra ugonotti e cattolici nel cinquecento e la rivoluzione ne hanno fatte sparire moltissime.
I vangeli apocrifi di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che hanno ispirato alcuni testi gradalici, parlano diffusamente del sangue e della sua raccolta e conservazione.
Note, ad esempio, le ampolle di Santo Sangue che si dicevano trovate all’interno del crocifisso noto come “Santo Volto”, giunto a Luni dalla terrasanta e passato quindi a Lucca. E le reliquie del Santo Sangue conservate a Sant’Andrea e San Lorenzo di Mantova.
Ancora: la leggenda di un guanto di Nicodemo impregnato del Sangue del Salvatore e chiuso nel becco di un uccello nell’abbazia (che da questo prende il nome) normanna di Le Bec.
Reliquie del sangue costellano l’Europa, e in particolare la zona della Lorena, della quale nell’XI secolo i signori erano imparentati con Matilde di Canossa, domina sia di Mantova che di Lucca. Fu Matilde, appunto, a donare una particula del Santo Sangue al monastero di Weingarten presso Ravensburg, in Svizzera; a Bruges, invece, la reliquia del sangue era stata portata da Teodorico d’Alsazia conte di Fiandra, padre del Filippo cui Chretién dedicò il Perceval.
Né mancavano le chiese che vantavano il possesso del recipiente nel quale era stato consacrato il vino durante la cena, con cui poi Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue della crocifissione (anche se gli angeli che raccolgono il sangue sono fraquenti nelle pitture tardomedievali). I pellegrini segnalano la presenza del calice nella chiesa dell’Anàstasis di Gerusalemme, e lo descrivono come un calice d’argento dotato di manici e piuttosto capiente (un sestario gallico, circa sette litri). Non è chiaro quando fu trafugato: forse nel 1099 durante le lotte col califfo al-Hakim o nel 1187 dopo la presa di Gerusalemme da parte del Saladino (improbabile, perché il sultano non violò la chiesa del Santo Sepolcro).
Nel maggio 1101 i marinai genovesi avevano catturato la città di Cesarea sul litorale palestinese: tra le prede conquistate e deposte nella cattedrale di San Lorenzo il maggiore cronista della crociata, Guglielmo di Tiro, menziona un “recipiente di colore verde intenso a forma di piatto che […] i genovesi, credendolo di smeraldo, […] vollero offrire come insigne ornamento per la loro chiese”. Si tratta del Santo Catino di Cesarea, un piatto largo in pasta vitrea - e di forma esagonale, senza piedi e munito di due piccoli manici, del diametro di 32 cm e mezzo e della capienza di circa 3 litri - ancora oggi visibile. In realtà, inizialmente non gli fu data importanza, dal momento che Caffaro, il testimone genovese della crociata, non ne parla. Solo dopo la diffusione della letteratura gradalica si cominciò a reputarlo smeraldino e a tributargli culto. Tra due e trecento il nome Percivalle è diffuso nell’onomastica genovese, segno della fortuna del ciclo del Graal.
Intanto acquistava fama crescente nella cristianità, in particolare dopo la riconquista di Valencia, il Santo Calice costituito da una pietra di calcedonio montata in oro custodito nella cattedrale di quella città. Secondo la tradizione si trattava del calice dell’Ultima Cena, che Pietro aveva portato a Roma, quindi San Lorenzo inviato a Huesca durante la persecuzione di Valeriano. Da Huesca il calice era passato nel 713 al monastero di San Juan de la Pena, da dove i re d’Aragona lo avevano traslato nel 1399 a Saragozza e poi nel 1437 a Valencia.
Il Catino di Genova e il Calice di Valencia richiamano al fatto che il recipiente dell’Ultima Cena era, secondo la tradizione, ricavato da un’unica pietra. Un lapis unicum come la gemma della corona imperiale di Aquisgrana.
La cultura cristiana appariva quindi singolarmente disposta ad accogliere e a interpretare il Graal come simbolo, dotato però di una sua identificazione come reliquia: nei decenni tra la fine del XII e il XIII secolo, la teologia eucaristica da una parte, la lotta contro le eresie dall’altra - in particolare contro il catarismo, che avversava duramentr il dogma dell’Incarnazione ritenendolo una delle più terribili trappole in cui il malvagio Dio Creatore, il Demiurgo signore della materia, avrebbe potuto imprigionare lo Spirito - rendevano molto opportuno il diffondersi dell’idea del Graal come coppa eucaristica, che d’altro canto veniva a risolvere in termini spirituali qualunque residuo pagano connesso con il tema del recipiente della felicità, dell’abbondanza o della vita eterna.

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