Il Santo Graal

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Staurophylaktos
00venerdì 1 aprile 2005 19:53

1 - Origine storica

Intorno alla metà del XII secolo i regnanti angioino-plantageneti, la cui sovranità si estendeva sull'Inghilterra ma che derivava dalla Bretagna, dalla Normandia e dall'Anjou, erano impegnati nel crearsi un grande regno, che oltre all'Inghilterra, comprendeva gran parte dell'attuale Francia. Il matrimonio dinastico tra Enrico II ed Eleonora d'Aquitania, nel 1152, sigillava un vasto programma egemonico: ora i domini di Luigi VII di Francia - che fu il primo marito di Eleonora, e del quale il re inglese era a vario titolo vassallo per i territori francesi - erano molto meno estesi rispetto a quelli del rivale d'oltremanica, per quanto Luigi ne fosse signore feudale per vaste aree.
Era quindi necessario per la dinastia anglo-francese creare un precedente tanto dei celti insulari e degli anglosassoni quanto dei normanni, capace di nobilitare e avvicinare entrambe le stirpi delle due sponde della manica. E che potesse competere, per antichità e sacralità, tanto con la monarchia francese - che aveva il suo centro sacro in Reims, dove si conservava la Sacra Ampolla dell'olio con cui si ungevano i re, e nell'abbazia di Saint-Denis, che custodiva il vessillo direttamente concesso da Dio a Carlomagno, l'Orifiamma - quanto con lo stesso impero Romano-Germanico che traeva la sua sacralità dalla Cappella Palatina d'Aquisgrana, dove riposavano le reliquie di Carlomagno.
Questa pratica era già ben nota fin dall'antichità, ne è esempio L'Eneide, che creò un'origine troiana per gli imperatoti romani.
Gli emuli delle tradizioni francesi e germaniche furono presto individuati negli antichi sovrani celtici cristianizzati.
Già nell'VIII-IX secolo l'Historia Britorum di Nennio nominava un "Arturus Rex": oggi si ritiene che la figura di Artù sia un funzionario romano della Britannia, Lucius Artorius.
Nella seconda metà del secolo X gli Annales Cambriae parlavano di una vittoria riportata dai britanni contro i sassoni nel 516 o 518, durante la quale il re Arturus avrebbe portato per tre giorni consecutivi la croce del Cristo. Le tradizioni arturiane sarebbero state raccolte intorno al 1135 dalla Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, al quale s'ispirò Guglielmo di Malmesbury per la seconda edizione di un suo scritto, il De antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, redatto tra il 1135 e il 1137 e nel quale la leggenda appare per la prima volta nella sua interezza.
Per Artù si creò anche un centro sacrale che poteva rivaleggiare con Aquisgrana e con Saint-Denis: l'abbazia di Glastonbury nel somerset, dove nel 1191 - durante la terza crociata - furono scoperte le tombe del re Artù (con la famosa iscrizione "rex quondam rexque futurus", re una volta e re per il futuro) e di Ginevra e che fu identificata con la leggendaria Avalon.
Tra il 1181 e il 1190 Chrétien de Troyes (probabilmente il maggiore poeta medievale prima di Dante) compose il Perceval, ou le Conte du Graal: in esso è dichiarato che la trama deriva da un libro ricevuto dal dedicatario stesso dell'opera, Filippo d'Alsazia conte di Fiandra, che nel settembre 1190 partì per la terza crociata (e non ne sarebbe tornato).
Il XII secolo non apprezzava le novità: tanto più in un campo come quello delineato dal Perceval, dove si proponeva la vicenda d'una sorta di iniziazione religioso-cavalleresca incentrata sul mistero del Graal.
Ma il termine Graal, che per noi è un nome proprio, ai tempi di Chrétien non lo era affatto; né lo era neo suoi versi, dove si propone non la storia del Graal quanto quella di un Graal, sia pur particolare.
La parola graaus (al nominativo; nei complementi, graal) è attestata in lingua d'oil almeno a partire dal Roman d'Alexandre del 1160-70: il Du Cange riferisce che la parola latina gradalis, corrispondente a graaus, è contenuta nel testamento del conte Ermengaud d'Urgel (1110) che dona all'abbazia di Sainte Foy di Conques "gradales duas de argento".
Nell'area di Troyes la parola graal esisteva da molto tempo come nome comune per indicare un piatto o una scodella. Ma anche altre regioni della Francia conoscevano varianti di questo termine col medesimo significato: nel sud-ovest si usava gardale, nella Svizzera romanda, gral, nel Jura, giro,gro,gra,gre; la variante provenzale-occitana grazal o grasal s'incontra in Provenza almeno dalla metà del XII secolo e sopravvive fino ad oggi, come ben sa chiunque in montagna abbia bevuto da una grolla.





Staurophylaktos
00sabato 2 aprile 2005 14:40
2 - Chretien de Troyes

La prima opera a parlare del Graal è, come abbiamo visto sopra, il Perceval di Chretién.
Ora, Chretién descrive - sommariamente - il suo graal come un piatto largo e abbastanza capiente e profondo da contenere un grosso pesce, mentre un testo primoduecentesco, la prima "Continuazione anonima" del Perceval, ne tratta come di un recipiente tanto grande e profondo da contenere una testa di cinghiale.
Risulta chiaro che questi autori consideravano il graal come un oggetto d'uso corrente, magari addirittura umile e quotidiano. Si ritiene che etimologicamente il termine sia la sintesi tra due termini latini, crater (il panciuto vaso per il vino) e vas garale (un recipiente che si utilizzava per conservare una salsa di pesce chiamata garum: di nuovo qualcosa a che fare col pesce).
La diffusione del termine volgare dovrebbe aver avuto inizio nell'area occitanico-catalana, nell'accezione di un oggetto di uso corrente.
Va sottolineato che anche in gaelico esiste la forma greallach con il significato di "creta", "argilla" o "terra cruda", che fa pensare ad una radice indoeuropea.
La teoria che fa riferimento all'espressione Sang Real, con riferimento al sangue del Cristo, o comunque alla dinastia Merovingia è senz'altro affascinante ma manca di ogni prova a suo favore.
Il Perceval è un "romanzo iniziatico", che racconta come il giovane Perceval il Gallese, "figlio della dama vedova" e abitante nella "Guasta Foresta" - dov'è cresciuto del tutto ignaro dei costumi cavallereschi dato che la madre (che ha perso tutti i suoi cari a causa della cavalleria) ha voluto tenerlo al riparo da tale conoscenza - intraprenda invece la professione delle armi cortesi (l'ideale cortese andava sviluppandosi proprio nella corte di Troyes) giungendo, attraverso svariati insegnamenti che spesso fraintende, alla perfezione spirituale.
Il giovane Perceval incontra un giorno nella foresta, per caso, dei cavalieri: rimane affascinato e spaventato dalla loro bellezza e potenza, rivolge loro molte domande e - sulla base delle risposte - decide di recarsi alla corte di Artù a Cardurel, in Galles, per essere a sua volta investito della dignità di cavaliere.
La madre, nonostante il timore che il figlio vada incontro alla morte come il resto della famiglia, gli impartisce gli insegnamenti fondamentali sulla cavalleria: onorare dame e damigelle, chiedere il nome a chi s'incontrerà con lui, rispettare le chiese.
Seguendo queste indicazioni Perceval, ingenuo e rozzo, giunge alla corte di Artù, uccide il Cavaliere Vermiglio che ha offeso il re e viene istruito da Gornemant de Goort, che gli impone di concedere grazia al nemico vinto che la richieda, di non parlare troppo, di assistere i bisognosi e di pregare.
Dopo una serie di avventure, Perceval giunge alla corte del Re Pescatore, dove assiste ad una singolare processione:

[...]"Mentre parlano di questo e d'altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell'asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono assisi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue stillava dalla punta di ferro della lancia. Fin sulla mano del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tale meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. E' perchè rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che non si deve parlare troppo? Porre domande sarebbe villania. Non dice parola. Poi arrivano due valletti, tenendo in mano candelabri d'oro fino lavorato a tiello. [...] Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un'altra damigella recava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare e in terra..."

La misteriosa processione si ripete durante il banchetto del Re Pescatore con Perceval. Il Graal, “tutto scoperto”, passa ad ogni portata, e il giovane desidererebbe chieedere cosa significhi la scena, cosa si il Graal e a chi venga servito, ma, ricordando gli insegnamenti ricevuti, tace.
Al mattino seguente, il castello è deserto. Perceval ne esce solo, e da un incontro casuale - una giovane nella foresta, che poi risulterà essere la cugina - scopre che il Re Pescatore è gravemente ferito, e se egli avesse posto la domanda relativa alla funzione e alla natura del Graal sarebbe guarito, e che il suo errore deriva da una colpa, aver fatto morire di dolore la madre dopo che l’aveva abbandonata per recarsi da Artù.
Dopo altre avventure, che si intrecciano con quelle di un altro noto cavaliere, Galvano, Perceval arriva, il Venerdi Santo, a un eremo dove risiede un anacoreta. Questi gli rivela di essere fratello di sua madre e del re al quale è servito il Graal, il cui contenuto è un’ostia: “quest’ostia sostiene e conforta la sua vita, tanto essa è santa, e egli stesso è sì santo che nulla lo fa vivere se non l’ostia del Graal”.
Dopo questa rivelazione, Perceval rimane dallo zio eremita per espiare il suo peccato, la morte della madre. In questo modo l’educazione cavalleresca del giovane si conclude attraverso l’affinamento dello spirito.
I pochi versi relativi all’apparizione del Graal nel castello e i successivi, sull’ostia della quale si ciba il re ferito, hanno segnato come nient’altro la cultura europea: da allora quel graal è diventato il Solo., l’Unico, il Santo Graal.
Così come esiste, redatta e completata nel XIII secolo, una Legenda Crucis, che segue la sorte del legno della croce dal Paradiso terrestre al Calvario, esiste anche una Legenda Gradalis, che segue le vicende del santo recipiente dalla sua confezione in poi.

Staurophylaktos
00sabato 2 aprile 2005 16:59
3 - Fortuna di un mito

Il Conte del Graal ebbe un immediato successo. Intorno al 1200 Robert de Boron scrisse in versi il Roman de l’Estoire du Graal, chiamato anche Joseph d’Arimathie. Con Robert si perde parte della caratterizzazione celtica della storia - la feerie del viaggio nel Regno del Graal, e la storia diventa più marcatamente cristiana, ispirata a scritti come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull’Eucarestia.
Visto che Chretién aveva lasciato incompiuto il Perceval, tral il 1200 e il 1230 vi furono quattro “continuazioni” in versi, tutte anonime. Nella vicenda sono sviluppate sia la matrice cristiana che quella celtico-meravigliosa, probabilmente a causa delle sovrapposizioni avvenute nei decenni.
La prima continuazione vede protagonista Gauvein, che nel testo di Chretién ricopriva un ruolo minore. Nella seconda continuazione, da molti attribuita a Wauchier de Denain, il protagonista è Perceval; il Graal è qui totalmente cristianizzato, essendo il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Il probabile autore della terza cotinuazione, Manessier, torna a temi più spiccatamente celtici, come il tema della vendetta, mentre il quarto, che si ritiene fosse Grbert de Montreuil, torna agli elementi cristiani.
Nel frattempo, tra il primo e il secondo decennio del XIIIsecolo, il racconto veniva raccolto da un poeta tedesco, Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto narrativo degli elementi di tipo orientale, al posto di quelli celtici che erano estranei alla tradizione germanica.
La principale differenza risiede nello stesso Graal, che viene presentato come una pietra:
[…]“Poi veniva la regina: volto aveva luminoso come l’alba, pensò ognuno. Era bello anche il suo abito di preziosa seta araba. Portò un verde drappo d’achmardi e il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d’ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d’ogni bene in terra.”[…]
Nel Parzival come in Chretién l’eroe viene spesso posto davanti all’errore; non solo, per pietà, evita di formulare a Amfortas (il Re Pescatore) la domanda relativa al suo dolore, ma giunge ad allontanarsi da Dio e a farsene nemico prima della redenzione: in un Muntsalwasche che era perduto e ora viene ritrovato, egli pone finalmente al Re Ferito la domanda liberatrice. Amfortas guarisce d’incanto mentre i cavalieri riconosco in Parzival il nuovo re.
La sacra reliquia, qui, non è la coppa che contiene l’ostia, né il calice dell’Ultima cena e di Giuseppe d’Arimatea: è invece una pietra preziosa, la Pietra Angolare figura del Cristo stesso, il Lapis associato nell’area germanica alla pietra incastonata nella corona imperiale e detto al tempo stesso der Waise (l’orfano, quindi l’unico) e der Weise (il saggio)..
Wolfram chiama il Graal lapis exillis, che viene spesso fatto derivare da lapis elisir, interpretabile come “pietra filosofale”, o da lapis ex coelis, avvicinandola alla gemma caduta insieme a Lucifero durante la cacciata dal Paradiso.
Nel filone del Graal si inseriscono anche il Peredur, racconto in prosa gallese che richiama molto il Perceval di Chretién, il Perlesvaus, nel quale appare anche Lancillotto, oltre ad Artù e Galvano, il Didot Perceval dello Pseudo Robert de Boron, e gli anonimi Queste del Saint Graal e Estoire del Saint Graal.
Entro la metà del duecento, quindi, la “cerca” del Graal era un filone letterario noto e ricco di varianti: suo oggetto, la cerca del prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Attraverso questi racconti l’Inghilterra anglonormanna si collegava strettamente con un altro piano e un’altra realtà storica, proprio a partire da quella seconda metà del XII secolo che aveva visto i sovrani d’Inghilterra ambire alla leadership della crociata. La missione era compiuta, era stata data sacralizzazione alla corona, tramite addirirrura l’Ultima Cena.
Si è quindi potuto ipotizzare che alla base della storia del Graal vi fosse un messaggio crociato, dopo che nel 1187 il Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, e quindi era andato perduto il Santo Sepolcro.
Il Graal, come calice dell’Eucarestia, era quindi il cuore della Vera Gerusalemme, raggiungibile anche se quella terrena era perduta.
Tanto che Wolfram mette come custodi del Graal addirittura i Templari, nel castello chiamato Muntsalwasche. Questo nome è di solito interpretato come “Monte Selvaggio”, ma sembra più probabile “Monte della Salvezza”, che richiama il Monte Moriah sul quale Abramo aveva allestito il sacrificio del figlio, e su cui Salomone aveva eretto il Tempio.
Ora, la militia pauperum militum Christi, che noi chiamiamo Ordine Templare, aveva la sua sede originale proprio dove sorgeva il Tempio di Salomone. E’ quindi molto significativo che Wolfram si riallacci alla tradizione templare, descrivendo il Graal come una pietra. Si tratta di un’allusione a Cristo come Pietra Angolare; ma al tempo stesso alla pietra del sacrificio del Monte Moriah, che i biblisti associano al Calvario. Come già detto, pietra in area germanica associata alla gemma posta in cuspide alla corona imperiale degli Ottoni.
Alla luce del Graal valutato non come oggetto fiabesco, bensì come reliquia della Cena, si reinterpretarono anche reliquie che la cristianità conosceva da molto tempo. Si creava così un problema: il Graal era un oggetto mitico, un recipiente scomparso, oppure una reliquia ancora visibile e venerabile? Per quanto possa sembrare assurdo trattare il Graal come una “reliquia”, esistono tuttavia oggetti sui quali si è addensata una tradizione gradalica e che quindi, in un modo o nell’altro, ben lo rappresentano.

Arjuna
00sabato 2 aprile 2005 17:13
Complimenti Stauro.

Ben documentato ed interessante.
Staurophylaktos
00sabato 2 aprile 2005 17:30
Grazie, caro Arj.
Appena finiamo di buttare giù la parte sulle leggende la posto.
Dovrebbe venire meno "pesante" rispetto a questa, che però serviva per inquadrare l'argomento.
P.S.
Come mai mi sono apparsi un paio di smilini? L'ho postato anche sui rozzi e di là non è successo nulla, eppure il copia-incolla l'ho fatto dallo stesso documento word.
Dwarfolo
00sabato 2 aprile 2005 18:14
E' per via del codice alteranito per gli smilini. Se ad esempio scrivo il ";" seguiti dal ")" per indicare l'occhiolino ottengo questo ;)
Tu hai scritto ad esempio : mmm : (senza spazi) che equivale a questo :mmm:
Per evitarlo in basso c'è da spuntare la casella disabilita smiles.

Dwarfolo
"La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci" (Salvor Hardin, sindaco della Prima Fondazione)

[Modificato da Dwarfolo 02/04/2005 18.15]

Staurophylaktos
00sabato 2 aprile 2005 18:26
Grazie Dwarfo! Ormai sei il mio libretto di istruzioni ufficiale!;)
Staurophylaktos
00lunedì 4 aprile 2005 17:27
4 - Reliquie del Sangue

Nella cristianità esistono moltissime reliquie relative al Sangue di Cristo. Fondamentalmente sono di tre tipi: reliquie della Passione (il sangue che ha impregnato la Sindone, quello presente a Mantova e collegato alla lancia di Longino, ecc.); reliquie legate a miracoli eucaristici (il vino di Bolsena); e reliquie del sangue che sprizza da ostie o immagini consacrate.
Sia in Oriente che in Occidente moltissime chiese custodivano oggetti macchiati dal sangue del Signore. La maggior parte di questo patrimonio , peraltro di dubbia autenticità, è andata dispersa o è stata trafugata; in Francia, ad esempio, la guerra tra ugonotti e cattolici nel cinquecento e la rivoluzione ne hanno fatte sparire moltissime.
I vangeli apocrifi di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che hanno ispirato alcuni testi gradalici, parlano diffusamente del sangue e della sua raccolta e conservazione.
Note, ad esempio, le ampolle di Santo Sangue che si dicevano trovate all’interno del crocifisso noto come “Santo Volto”, giunto a Luni dalla terrasanta e passato quindi a Lucca. E le reliquie del Santo Sangue conservate a Sant’Andrea e San Lorenzo di Mantova.
Ancora: la leggenda di un guanto di Nicodemo impregnato del Sangue del Salvatore e chiuso nel becco di un uccello nell’abbazia (che da questo prende il nome) normanna di Le Bec.
Reliquie del sangue costellano l’Europa, e in particolare la zona della Lorena, della quale nell’XI secolo i signori erano imparentati con Matilde di Canossa, domina sia di Mantova che di Lucca. Fu Matilde, appunto, a donare una particula del Santo Sangue al monastero di Weingarten presso Ravensburg, in Svizzera; a Bruges, invece, la reliquia del sangue era stata portata da Teodorico d’Alsazia conte di Fiandra, padre del Filippo cui Chretién dedicò il Perceval.
Né mancavano le chiese che vantavano il possesso del recipiente nel quale era stato consacrato il vino durante la cena, con cui poi Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue della crocifissione (anche se gli angeli che raccolgono il sangue sono fraquenti nelle pitture tardomedievali). I pellegrini segnalano la presenza del calice nella chiesa dell’Anàstasis di Gerusalemme, e lo descrivono come un calice d’argento dotato di manici e piuttosto capiente (un sestario gallico, circa sette litri). Non è chiaro quando fu trafugato: forse nel 1099 durante le lotte col califfo al-Hakim o nel 1187 dopo la presa di Gerusalemme da parte del Saladino (improbabile, perché il sultano non violò la chiesa del Santo Sepolcro).
Nel maggio 1101 i marinai genovesi avevano catturato la città di Cesarea sul litorale palestinese: tra le prede conquistate e deposte nella cattedrale di San Lorenzo il maggiore cronista della crociata, Guglielmo di Tiro, menziona un “recipiente di colore verde intenso a forma di piatto che […] i genovesi, credendolo di smeraldo, […] vollero offrire come insigne ornamento per la loro chiese”. Si tratta del Santo Catino di Cesarea, un piatto largo in pasta vitrea - e di forma esagonale, senza piedi e munito di due piccoli manici, del diametro di 32 cm e mezzo e della capienza di circa 3 litri - ancora oggi visibile. In realtà, inizialmente non gli fu data importanza, dal momento che Caffaro, il testimone genovese della crociata, non ne parla. Solo dopo la diffusione della letteratura gradalica si cominciò a reputarlo smeraldino e a tributargli culto. Tra due e trecento il nome Percivalle è diffuso nell’onomastica genovese, segno della fortuna del ciclo del Graal.
Intanto acquistava fama crescente nella cristianità, in particolare dopo la riconquista di Valencia, il Santo Calice costituito da una pietra di calcedonio montata in oro custodito nella cattedrale di quella città. Secondo la tradizione si trattava del calice dell’Ultima Cena, che Pietro aveva portato a Roma, quindi San Lorenzo inviato a Huesca durante la persecuzione di Valeriano. Da Huesca il calice era passato nel 713 al monastero di San Juan de la Pena, da dove i re d’Aragona lo avevano traslato nel 1399 a Saragozza e poi nel 1437 a Valencia.
Il Catino di Genova e il Calice di Valencia richiamano al fatto che il recipiente dell’Ultima Cena era, secondo la tradizione, ricavato da un’unica pietra. Un lapis unicum come la gemma della corona imperiale di Aquisgrana.
La cultura cristiana appariva quindi singolarmente disposta ad accogliere e a interpretare il Graal come simbolo, dotato però di una sua identificazione come reliquia: nei decenni tra la fine del XII e il XIII secolo, la teologia eucaristica da una parte, la lotta contro le eresie dall’altra - in particolare contro il catarismo, che avversava duramentr il dogma dell’Incarnazione ritenendolo una delle più terribili trappole in cui il malvagio Dio Creatore, il Demiurgo signore della materia, avrebbe potuto imprigionare lo Spirito - rendevano molto opportuno il diffondersi dell’idea del Graal come coppa eucaristica, che d’altro canto veniva a risolvere in termini spirituali qualunque residuo pagano connesso con il tema del recipiente della felicità, dell’abbondanza o della vita eterna.

Arjuna
00lunedì 4 aprile 2005 18:11
Vediamo se ho capito bene.
In sintesi il Grall sarebbe un'invenzione letteraria di Chrétien de Troyes.
Successivamente l'idea è attecchita ed è stata trattata aggiungendo sempre nuovi elementi.
Giusto?
Staurophylaktos
00lunedì 4 aprile 2005 18:18
Per quanto se ne sa ad oggi, si.
L'idea di un contenitore in grado di conferire poteri sovrannaturali è in realtà vecchia quanto il mondo, ma il Graal come lo intendiamo noi, la coppa dell'ultima cena ecc., è una creazione medievale.
giovannict83
00lunedì 4 aprile 2005 18:50
Se non sbaglio nel libro il codice da vinci addirittura viene definito il gral come una raccolta di documenti
Raiden
00lunedì 4 aprile 2005 20:29
Facciamo che il Codice da Vinci è un thriller e non un saggio, non prendiamo per oro colato tutto quanto vi è scritto.

Se non ricordo male, Stauro, il mito del Graal ha cominciato a diffondersi proprio con la Chanson de Geste, da cui è derivato tutto il ciclo bretone di Artù.
Tempi difficili, quelli. I secoli bui avevano lasciato un gran bisogno di credenze esoteriche e magiche: la religione non fece altro che appropriarsene.
Ma non leggetelo come una usurpazione da parte della Chiesa. Spesso tutto ciò nasce da leggende e credenze popolari, non confermabili né smentibili: attribuire al calice poteri miracolosi era perfettamente in voga con la corrente di pensiero dell'epoca, prelati compresi.
Non è un mistero che le religioni moderne abbiano in qualche modo rielaborato tanti culti specifici dei tempi antichi.


Staurophylaktos
00lunedì 4 aprile 2005 20:36
Perfetto, Raid. Hai ragione in toto.
Dwarfolo
00lunedì 4 aprile 2005 20:39
Re:

Scritto da: Staurophylaktos 04/04/2005 18.18
Per quanto se ne sa ad oggi, si.
L'idea di un contenitore in grado di conferire poteri sovrannaturali è in realtà vecchia quanto il mondo, ma il Graal come lo intendiamo noi, la coppa dell'ultima cena ecc., è una creazione medievale.


Infatti (non ricordo dove l'ho letto) venne spesso paragonato al calderone dell'abbondanza celtico, anchesso foriero di molti poteri magici.

Staurophylaktos
00lunedì 4 aprile 2005 20:53
Precisamente. Il folklore celtico poi è quello che fu più saccheggiato dagli autori del Graal.
Addirittura in Danimarca si può vedere il "Calderone di Gundestrup" (spero di averlo scritto giusto), un recipiente dorato ricoperto di placche d'argento ritrovato a Gundestrup (spero nuovamente), arrivato in seguito a qualche incursione e conservato al Museo di Copenhagen.
www.arteceltica.it/foto/calderonesmall.gif

E' un esempio perfetto di "contenitore magico" preesistente alla leggenda del Graal.

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Omnia sunt communia

[Modificato da Staurophylaktos 04/04/2005 21.30]

[Modificato da Staurophylaktos 04/04/2005 21.37]

Arjuna
00martedì 5 aprile 2005 10:59
Mi sembra di ricordare che nelle varie tradizioni c'è molta confusione riguardo al Grall.

Secondo alcuni autori il Grall è la coppa da cui Gesù bevette nell'ultima cena.
Secondo altri autori sarebbe la coppa in cui fu raccolto il sangue che sgorgò dalla ferita inflitta dalla lancia di Longino.
Mi pare addirittura che alcuni autori le abbiano riunite precisando che la coppa in cui Gesù bevette fu poi utilizzata per raccogliere il suo sangue.

Giusto Stauro?

Raiden
00martedì 5 aprile 2005 11:21
Più o meno.
Il nocciolo della questione è che del Graal non ne parla direttamente la Bibbia, il che gli avrebbe conferito una maggiore credibilità, ma una serie piuttosto scollegata di poemi riferiti a cavalieri senza macchia e senza paura.

Ovviamente sto ancora parlando della Chanson de Geste di Chrétien de Troyes, da cui è partito il ciclo bretone di Artù. Ciclo per l'appunto non omogeneo, in cui una volta il Graal lo trova Perceval (o Parsifal), un'altra lo custodisce Galvano, ecc...

Per questo motivo le credenze si sono diffuse in maniera disuguale: in un poema il Graal rappresentava il calice della Cena, in un altro il sangue versato sulla croce, in un altro ancora entrambe le versioni.


Staurophylaktos
00martedì 5 aprile 2005 11:42
Mi associo nuovamente al Redentore. Addirittura alcuni (come Wolfram) ne fanno una pietra. Nei secoli poi è stato associato a una miriade di cose differenti, da documenti a persone.
Arjuna
00martedì 5 aprile 2005 13:07
Il Grall non era stato addirittura inteso come il sangue di Cristo, ovvero la sua discendenza?
Mi pare fosse riferito ai re francesi.

Staurophylaktos
00martedì 5 aprile 2005 13:40
Si, negli anni '80 uscì una teoria che faceva discendere Santo Graal sa Sang Real, dove il sangue reale sarebbe quello di Cristo e della sua discendenza. Secondo questa teoria (vedi Baigent Leigh Lincoln, "il Santo Graal", poi ripresa nel codice da Vinci) Gesù non sarebbe morto in croce ma sarebbe sbarcato in Francia dove dall'unione con la Maddalena sarebbe nata una linea di sangue riconducibile ai Merovingi.
Bella, affascinante, ma senza uno straccio di prova. Anzi, i documenti su cui si basa sono dei falsi della metà del '900.
Arjuna
00martedì 5 aprile 2005 15:26
Preparatissimo Stauro.;)

Sarebbe interessante una specie di raccolta delle varie interpretazioni del Grall.

Ovvero:
- piatto
- coppa di vino
- coppa in cui fu raccolto il sangue
- linea di sangue

Ce ne sono altre?


Ne uccide + la spada che la penna!
L'ascia lascia la scia!

[Modificato da Arjuna 05/04/2005 15.27]

Dwarfolo
00martedì 5 aprile 2005 15:30
Come ho detto è stato identificato anche con oggetti della tradizione pagana, non solo quella cristiana.
Il calderone dei celti ad esempio, uno dei famosi 12 (o 13?) tesori della Britannia.

Staurophylaktos
00martedì 5 aprile 2005 17:23
Di sicuro pietra preziosa generica, perla, nave, pietra. e di certo ce ne sono altre. Cerco un pò poi posto se ho trovato altre interpretazioni.
Staurophylaktos
00martedì 5 aprile 2005 20:11
Re:

Scritto da: Arjuna 05/04/2005 13.07
Il Grall non era stato addirittura inteso come il sangue di Cristo, ovvero la sua discendenza?
Mi pare fosse riferito ai re francesi.



Torno su questo post per spiegare meglio da dove arriva questa teoria.
Rennes le Chateau è un paesino francese del dipartimento dell'Aude, ai piedi dei Pirenei orientali, nella zona detta del Razes. Dal 1960 a oggi a Rennes le Chateau sono state dedicate una miriade di pubblicazione, a cause delle leggende che lo vedono protagonista.
Le leggende che attirano a Rennes i turisti sono così estreme che gli stessi specialisti di esoterismo esitano ad occuparsene, temendo di essere confusi con i mitomani che hanno scritto sull'argomento.
Rennes le Chateau nasconderebbe infatti - e non si tratta di un elenco completo - la verità sul Graal, quella sul cristianesimo, l'identità dei veri pretendenti al trono di Francia, la vera storia delle società segrete, le prospettive future del mondo e l'immancabile tesoro dal valore incommensurabile.
La fama di Rennes le Chateau si ricollega certamente alle leggende sul "Graal dei catari": il borgo si trova all'interno di quel "paese cataro" che una sapiente promozione ha reso in anni recenti una delle piùambite mete turistiche francesi. Rennes rimarrebbe però una nota a piè di pagina del ricco turismo "cataro" contemporaneo se del paese non fosse diventato parroco, nel 1885, don Berenger Sauniere (1852-1917).
Personaggio bizzarro, egli nel 1909 rifiutò di trasferirsi in un'altra parrocchia e nel 1910, dopo aver perso un processo ecclesiastico, subì una sospensione a divinis. Pure privato della parrocchia rimase fino alla morte nel paese, che aveva arricchito con nuove costruzioni - tra cui una curiosa "torre di Magdala" - e scandalizzato con una serie di scavi nella cripta e nel cimitero, alla ricerca di non si sa bene cosa.
Diventato più ricco di quanto fosse consueto per un parroco di campagna, si favoleggiò che avesse trovato il tesoro. Tutto poteva spiegarsi, peraltro - come sospettava il suo vescovo - con un meno romantico traffico di donazioni e di messe. In epoca recente si è sostenuto che Sauniere avesse scoperto nella cripta importantissimi manoscritti antichi, ma quelli che sono emersi finora sono falsi evidenti del XIX se non del XX secolo.
E' possibile che - nel corso dei lavori per restaurare la chiesa parrocchiale (un'attività che va in ogni caso ascritta a merito dell'originale parroco) - don Sauniere avesse scoperto qualche reperto medievale, ma in ogni caso non in quantità sufficiente da arricchirsi. Si continua a ripetere anche che Sauniere sarebbe stato in rapporti con ambienti esoterici di PArigi, la nessuna prova esiste di questo. La figura di Sauniere non è priva di interesse: e le sue costruzioni mostrano che si trattava di un uomo singolarmente attento alle allegorie e ai simboli, forse con qualche modesto interesse esoterico, sulla scia di una tradizione locale. Tuttavia la leggenda di Sauniere non sarebbe continuata nel tempo se la sua perpetua, Marie Denarnaud - a cui il sacerdote aveva intestato le proprierà e le costruzioni di Rennes, per sottrarle al vescovo con cui era in conflitto - non avesse continuato per anni, anche per incoraggiare eventuali contendenti, a favoleggiare di tesori nascosti.
E se un altro personaggio, Noel Corbu, dopo aver acquistato dalla Denarnaud le proprietà dell'ex parroco per trasformarle in un ristorante, non avesse cominciato, a partire dal 1956, a pubblicare articoli sulla stampa locale dove - animato certo anche dal legittimo desiderio di attrarre turisti in un borgo remoto - metteva i presunti "miliardi" di don Sauniere in relazione con il tesoro dei catari.
Negli anni sessanta le leggende diffuse da Corbu su scala locale acquistano fama nazionale dopo essere cadute nelle mani di esoteristi - fra cui Pierre Plantard - e di giornalisti interessati ai misteri esoterici come Gerard de Sede, che pubblicò nel 1967 "l'or de Rennes". Tre autori inglesi di esoterismo popolare - Baigent, Leigh e Lincoln - si incaricarono di elaborare ulteriormente le sue idee, trasformandole in una vera industria editoriale, avviata con la pubblicazione de "Il santo Graal". Con questi autori Rennes diventa, per milioni di lettori e di turisti, la capitale del Graal (un tema a cui Sauniere non aveva mai minimamente accennato). Secondo de Sede e i suoi continuatori inglesi, il parroco aveva scoperto il segreto di Rennes le Chateau, dove sarebbe depositato non solo un tesoro favoloso - variamente attribuito al Tempio di Gerusalemme, ai visigoti, ai catari, ai templari, alla monarchia francese, e a cui il sacerdote avrebbe attinto solo per una piccola parte - ma anche - rivelato dalle presunte pergamene ritrovate da Sauniere, dalle iscrizioni del cimitero, dalle forme stesse degli edifici e di quanto si trova nella chiesa parrocchiale - un tesoro di tipo non materiale, la verità sulla storia del mondo.
Nel paesino pirenaico esisterebbero documenti in grado di provare che Gesù Cristo - verità accuratamente nascosta dalla chiesa cattolica - aveva avuto figli da Maria Maddalena, che questi figli portano in sè il sangue stesso di Dio e che pertanto hanno il diritto di regnare sulla Francia e sul Mondo intero. Il Santo Graal sarebbe, più propriamente, il Sang Real, il "sangue Reale" dei discendenti di Gesù Cristo. Discendenti di Gesù e della Maddalena sarebbero stati i re merovingi, il cui regno sarebbe stato usurpato dai carolingi e dai capetingi.
Ma i catari, i templari, i grandi iniziati - dalla stesso Sauniere al pittore Nicolas Poussin, che ne avrebbe lasciato una traccia nel suo quadro "I pastori d'Arcadia" - hanno custodito il segreto come cosa preziosissima, lasciando trapelare di tanto in tanto qualche indizio. Il sangue divino dei merovingi, il vero Graal, non sarebbe solo il sangue più nobile, destinato a regnare sul mondo intero, ma - a chi sappia entrare in contatto con l'energia che sprigiona attraverso appositi rituali - garantirebbe persino l'immortalità.
Non è poco: mancava solo una società segreta che, caduti i merovingi, avesse tramandato nella storia il segreto del Graal, facendo delle varie massonerie un suo pallido strumento. E la società si costituirà negli anni '50 con la fondazione - con tanto di carta da bollo - del Priorato di Sion da parte di Pierre Plantard, nel frattempo pronto a rivelare di essere egli stesso un discendente dei merovingi e il custode del Graal. Il Priorato, affermava Plantard, esisterebbe da oltre 1000 anni. La prova? I famosi documenti trovati da parte di Sauniere e rinvenuti nelle biblioteche, dove però li aveva opportunamente seminati, dopo averli prodotti, lo stesso Plantard.
Questo non ha impedito al "Santo Graal" di Baigent e soci di vendere un paio di milioni di copie nel mondo, spargendo a piene mani le storie più incredibili sull'antichissimo e potentissimo Priorato di Sion.
Staurophylaktos
00mercoledì 6 aprile 2005 10:45
5 - miti, archetipi, paralleli folkloristici

Indubbiamente i romanzi della Leggenda gradalis risentono di influenze celtiche (anche se i celti in quanto tali sono un’invenzione moderna) e orientali - la base è il racconto persiano del viaggio dei magi - ma è certo che i poeti del Graal fossero cristiani e non volessero essere altro.
Il calice e la coppa sono dei veri e propri grandi archetipi, densi di significato in tutto il mondo eurasiatico-mediterraneo.
Nella tradizione dei Salmi biblici, il cantore offre a Dio la coppa della salvezza o riceve, da Lui, quella delle benedizioni o del castigo; il Vangelo parla del calice del dolore, mentre al contrario la coppa che trabocca è tradizionale simbolo di gioia e di abbondanza. Nell’Apocalisse ci si trova dinanzi alle coppe ricolme dell’ira divina; coppe, calici e bacili sono presenti nel mondo paleocristiano e altomedievale come simbolo e come dono. Ma la coppa è centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanistico-induiste; mentre nella tradizione islamo-persiana, che molto deve all’Iran mazdaico, il re Gemshid possiede una coppa nella quale si può vedere l’intero universo: coppe e bacili sono infatti strumenti abituali per riti mantici come per l’elaborazione di filtri potenti. Questa idea della coppa come sede di potenza e di sapienza si ritrova nella tradizione islamica allorchè a una coppa è paragonato il cuore dell’Arif (il saggio, l’iniziato).
Ritroviamo coppe e bacili come simbolo di potere o come oggetti magici nella tradizione greca. Ma è nella tradizione germanica che la coppa ha certamente un significato di trasmissione della regalità. Ad esempio, si conserva nel tesoro del Duomo di monza il calice che la regina Teodolinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nella successione del defunto marito Autari:
“[…]Mentre i suoi legati si trovavano in Francia, il re Autari, dopo aver regnato per sei anni, morì a Ticino (Pavia) il giorno 5 di settembre (590), si dice per veleno. […] Quanto alla regina Teodolinda, poiché piaceva molto ai longobardi, essi le permisero di rimanere nella dignità regia, invitandola a scegliersi tra tutti i longobardi lo sposo che volesse: ovviamente che fosse tale da poter reggere il regno a buon fine. Ella si consigliò con i saggi e scelse come proprio marito e re per la gente longobarda Agilulfo, duca dei torinesi. Era questi un uomo forte e valoroso e sia di corpo che di animo adatto a governare il regno. Subito la regina gli mandò a dire di presentarsi a lei, ed ella stessa gli andò incontro nella cittadella di Lomello. Quando egli fu giunto, la regina, scambiata qualche parola, si fece servire del vino e, dopo aver bevuto per prima, ofrrì il resto da bere ad Agilulfo. Presa la coppa, egli baciò rispettosamente la mano alla regina, ma lei, sorridendo mentre arrossiva, disse che non doveva baciarle la mano chi doveva baciarla sulla bocca. E così, innalzandolo al proprio bacio, gli annunciò le sue nozze e la dignità regia”.
A distanza di circa due secoli il cronista longobardo Paolo Diacono mostra di non intendere troppo chiaramente il valore dell’offerta rituale della coppa: il che conduce a riflettere su come la memoria del significato dei simboli non dovesse avere vita troppo lunga una volta che questi erano decontestualizzati.
Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico la coppa simbolo di regalità e il bacile-calderone dell’abbondanza e della conoscenza appartenente al dio Dagda si sovrappongono; ma le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordo che nel Perceval di Chretién è una donna a portare il Graal - a un candidato al trono sia il segno della sua elezione. La coppa più bella viene offerta all’eroe, al più valoroso fra i guerrieri:
“[…]Loegraire il Vittorioso si alzò e mostrò la coppa di bronzo con l’uccello di elettro sul piede. “La porzione dell’eroe appartiene a me” disse “e nessuno me la disputerà!”. “Non è tua”, disse Conall il Trionfatore “i nostri doni non sono eguali: tu hai una coppa di bronzo, ma la mia è di elettro. Da questa differenza risulta chiaro che la porzione dell’eroe spetta a me”. “non è di nessuno dei due” disse Cu Chulainn alzandosi. […] Allora alzò ben alta, e la mostrò a tutti, la coppa di oro rosso con sul piede l’uccello di pietre preziose, i cui occhi erano gemme rosso drago. Tutti i campioni dell’Ulaid che circondavano onchobor figlio di Ness poterono ammirarla”.
Si può allora ipotizzare che la coppa come simbolo al contempo di regalità e di abbondanza sia un archetipo delle culture indoeuropee.
Come il mitema della coppa, anche quello della lancia è ricco di pari intensità e si presenta con la stessa frequenza transculturale. Una coppa e una lancia (quella di Longino, il santo leggendario che trafigge il costato del Salvatore e che deriva il suo nome forse dal greco longkhè, “lancia”) sono entrambi simboli della Passione, ed è anche la loro presenza associata a suggerire che la “processione del Graal” descritta nel Perceval abbia un significato anzitutto eucaristico.
Ma la lancia è a sua volta simbolo di sovranità. Da essa deriva lo scettro, e in greco il termine skeptron (verga, lancia, scettro) si associa al concetto di “fulmine” e ha valore magico quale strumento al tempo stesso di salvezza e di perdizione: come la lancia di Achille che - non diversamente dalla clava del dio celtico Dagda - poteva ferire e risanare le ferite.
Né va sottovalutato il fatto che tra il celtico Dagda e il germanico Wotan-Odhinn, entrambi signori della poesia, della sapienza e del furor guerriero, esistono connessioni profonde. Nella mitologia celtica la lancia è portata al dio Lug dalle Isole del mondo: anch’essa è in qualche modo un fulmine, nel senso che è una lancia di fuoco che infligge colpi mortali. La stessa arma appare nelle mani di molti fra i guerrieri mitici della tradizione celtica, come Cu Chulainn e suo fratello Conall:
[…]“(Cu Chulainn) aveva ormai sette anni. Un giorno Cathbad il duido si trovava con il figlio, Conchobor figlio di Ness [e re dell’Ulaid], e stava insegnando l’srte druidica a cento uomini (tale era sempre il numero dei suoi allievi). Gli fu chiesto in che modo quel giorno sarebbe stato propizio. Cathbad rispose che se in quel giorno un guerriero avesse preso le armi per la prima volta il suo nome sarebbe stato tramandato in tutta l’Eriu e le storie delle sue imprese sarebbero state narrate per sempre. Cu Chulainn intese tali parole; andò da conchobor e reclamò le armi. “Chi ti istruì?” chiese il re. “il mio padre adottivo Cathbad” disse Cu Chulainn. “Invero, lo conosciamo” disse Conchobor. E diede al ragazzo uno scudo e una lancia. Cu Chulainn brandì le armi nel centro della casa, e non un sol pezzo rimase intero delle quindici lance e dei quindici scudi che il re teneva in serbo per i nuovi guerrieri o per sostituire quelle rotte. Infine, gli furono date le armi di Conchobor, e queste resistettero. Il ragazzo le brandì, salutò il re e disse: “Felice la stirpe e il popolo il cui re possiede armi simili”.
La lancia è anche in grado di uccisere chi la possiede: come nel caso del guerriero Cetchar, ferito a morte da una goccia di sangue colata dalla punta.
Quanto alla coppa, cioè al Graal vero e proprio, nel Perceval di Chretién essa contiene l’ostia che nutre il Re Pescatore: il che l’accosta ovviamente al piatto miracoloso che reca il Corpus Christi. Nel racconto, inoltre, essa non sembra dispensatrice d’abbondanza, come nella tradizione celtica; tuttavia questo elemento sembra tornar fuori in altri romanzi del ciclo, e in particolare nella Queste del Saint Graal.
Un motivo di origine celtica è quasi sicuramente la testa tagliata e recata nel piatto (il Graal) che appare nel Peredur, anche tale immagine in ambito cristiano non ricordare la decollazione di San Giovanni Battista. Troncare la testa ai nemici era un’abitudine comune per i guerrieri celtici. Non si trattava però di un uso dal significato esclusivamente guerriero, perché presso i celti la testa mozzata aveva anche una funzione culturale. Lo si deduce chiaramente, per esempio, dal Mabinogi noto come Branwen, figlio di Llyr: il protagonista, Bran il Benedetto, ferito, ordina ai suoi uomini in difficoltà di mozzargli la testa che li accompagnerà e li guiderà nel corso di un lungo viaggio; quando infine viene sepolta essa è talmente potente da allontanare ogni calamità dalla terra in cui giace. Il tema della testa tagliata, e del valore della testa (e del cranio scarnificato) sul piano magico, è ben noto in molte culture, soprattutto - ma non soltanto - indoeuropee e uraloaltaiche (e tramite queste americane). Si tratta di teste umane, ma anche animali. Che in area eurasiatica si ricavassero coppe dai crani dei nemici uccisi (come nel noto episodio di Alboino) collega molto fortemente il tema del sacrificio con quello della regalità e del potere.
La leggenda graalica sarebbe insomma la versione medievale, pervenuta attraverso un’eredità celtica folklorizzata e reinterpretata in termini cristiani, del racconto archetipico dell’iniziazione d’un giovane re destinato a mantenere e\o a ristabilire la prosperità del suo regno, minacciata dalla vecchiaia, dalla malattia e\o dall’impotenza d’un vecchio Re Ferito (la Terra Desolata). Con il Graal siamo entrati in contatto con il risultato di una serie di acculturazioni - dal mondo biblico a quello latino, da quello celtico a quello germanico con le rispettive, e per molti versi coincidenti, radici indoeuropee - che finiscono con lìindicarci il medesimo tema mitico: la conquista della regalità, l’acquisizione della potenza-sapienza che rende immortali, la purificazione iniziatica necessaria per riuscire nell’impresa.
A livello soggettivo, è grottesco dubitare dell’immaginario e della fede, cristiani entrambi, dei poeti del Graal; ed è incontrollata fantasia attribuire loro una volontà esoterica e un messaggio segreto che solo un’elite di iniziati sarebbe in grado di comprendere: volontà e messaggio che si presenterebbero in modo del tutto incongru rispetto ai parametri culturali dell’occidente medievale. Esoterismo e occultismo sono atteggiamenti tipicamente moderni.
Staurophylaktos
00venerdì 8 aprile 2005 18:02
6 - Il ritorno del Graal

Nel 1485 lo stampatore inglese William Caxton pubblicava un romanzo-fiume di un cavaliere e avventuriero inglese del periodo della guerra delle Due Rose: la Morte Darthur di Thomas Malory, nella quale ancora una volta si riassumeva e si elaborava l’ormai quasi trisecolare materia arturiano-graalica.
La descrizione del corteo del Graal data dal Malory sembra aver perso ormai ogni nesso con la tradizione celtica, come appare chiaro dalla descrizione degli oggetti sacri; mentre all’inizio della Storia del Sangrail - corrispondente ai libri XIII-XVII della Morte Darthur - i cavalieri non riescono neppure a scorgere il Graal, che appare loro coperto da uno sciamito bianco:
[…]“Sembrò che nella sala entrasse un uomo vestito da vescovo e con una croce in mano, portato su un seggio da quattro angeli discesi dal cielo che lo deposero davanti alla tavola d’argento su cui era il Sangrail. […] Poi la porta si aprì e vennero avanti quattro angeli; due portavano candele di cera, uno un panno e il quarto una lancia che sanguinava e da cui tre gocce di sangue caddero in uno scrigno che l’angelo recava nell’altra mano. Le candele furono posate sulla tavola e il panno sul sacro vaso con sopra, diritta, la lancia prodigiosa. Il vescovo cominciò a celebrare la messa e quando, all’elevazione, prese in mano un’ostia di pane, apparve la figura di un bambino […] che si gettò nel pane […]. I cavalieri sedettero pregando colmi di timore, e allora videro uscire dal Sangrail un Uomo che portava aperti e sanguinanti i segni della Passione di Gesù Cristo…”.
Fu, quello, il canto del cigno dell’ispirazione connessa con il Santo Graal: fino al romanticismo esso non sarebbe più stato fonte di poesia. Tra cinque e settecento non si registra neppure una rimeditazione del “mito” o del simbolo graalici. La letteratura cavalleresca, che pure conobbe molti e complessi revivals, seguì percorsi deifferenti.
E’ caratteristico dell’ “eclisse del Graal” un fatto che ha il valore di un simbolo. Nella Boemia del quattrocento esplodeva la questione hussita: battuti gli hussiti estremisti (i “taboriti”), la scena boema fu a lungo dominata dagli hussiti moderati, che rivendicavano l’uso della comunione sotto le due specie e quindi del calice della messa anche da parte dei fedeli oltre che del sacerdote, e che per questo erano detti calixtini. La Boemia quattrocentesca è dominata dall’effigie del calice: eppure non circolano negli ambienti hussiti i romanzi graalici, la simbolica dei quali era evidentemente giudicata profana e paganeggiante.
Per motivi differenti - connessi forse anche con l’importanza del mito carolingio, resuscitato nell’Europa del Rinascimento sia dall’impero asburgico sia dalla monarchia francese che se ne sentivano eredi (e se ne contendevano l’eredità morale), e con la lotta contro i turchi ottomani che davano nuovo smalto alle gesta dei paladini di Carlo in lotta contro gli infedeli - la poesia epica d’argomento carolingio battè decisamente quella arturiana, per quanto non mancassero esempi e situazioni di commistione dai quali comunque la menzione del Graal era esclusa. Troppo “sospetta” per il cattolicesimo controriformista, troppo “pagana” per l’austerità protestante.
Bisognò aspettare la fine del XVIII secolo perché il medioevo e in genere le “età oscure” fossero fatte oggetto di rinnovata attenzione, mentre si andavano in parte riscoprendo e in parte reinventando (esempio la letteratura ossianica) le fonti celtiche e germaniche della cultura europea e della sua tradizione.
Intanto nell’Inghilterra romantica la leggenda del Graal si reimponeva alla coscienza e all’ammirazione del primo romanticismo. Nel 1792 Walter Scott (inventore del romanzo storico con Ivanhoe) andava annotando il romanzo del Malory. Nella prima metà dell’ottocento, poi, molte furono in Inghilterra le riedizioni e le riduzioni dei poemi arturiani, mentre veniva riscoperta anche la raccolta dei Mabinogion. E’ del 1842 la prima apparizione a stampa del Sir Launcelot and Queen Guinevere, della Morte a’Arthur e del Sir Galahad di Tennyson, mentre tra il 1849 e il 1862 gli affreschi di William Dyce nel palazzo di Westminster illustravano la visione di Galahad.
Anche i temi arturiani di Dante Gabriele Rossetti datano a partire dal 1855-59. La cultura romantica britannica, e in particolare la produzione preraffaellita, si configurava quindi come profondamente segnata dai sogni cavallereschi, nei quali il Graal assumeva ora una connotazione mistico-religiosa, ora invece una etico-misterica, non senza riferimenti e accenni all’estasi erotica, metaforicamente purificata in termini spirituali.
Tutte le tendenze parvero aggregarsi nell’opera dell’uomo cui più di ogni altro si deve il mito del Graal nel novecento: Richard Wagner.

Staurophylaktos
00venerdì 8 aprile 2005 18:32
7 - Richard Wagner

A Wagner si deve parte dell’immaginario moderno sull’epopea graalica (e altro; si è inventato di sana pianta gli elmi cornuti dei vichinghi, che oggi tutti credono reali). Il Graal lo affascinava dal 1845, quando si era accinto a trascrivere in parole e musica nuove l’antica saga tedesca che a sua volta rinarrava le gesta di Garin il Lorenese, il Lohengrin ripetutamente cantato, nel duecento, da poeti turingi e bavaresi. Lohengrin era già stato ricordato da Wolfram nel Parzifal come figlio dell’eroe. Nell’opera wagneriana, il misterioso Cavaliere del Cigno che può rivelare la sua identità solo a prezzo di scomparire poi alla vista dei mortali non solo è figlio di Parsifal, ma proviene dal castello del Graal in Montsalvat e là dovrà tornare, dopo esser stato costretto a rivelare la sua identità, rapito dal suo misterioso compagno, il cigno trasformato in colomba.
Nel Parsifal, in tre atti, la leggenda medievale viene non solo modificata, ma si può dire del tutto reinterpretata: i fatti sono - in parte - più o meno i medesimi narrati da Wolfram; i caratteri e il senso del racconto sono però profondamente differenti. Se il Lohengrin era stato, nel suo messaggio finale, una sconfitta del Graal - simboleggiata dalla mesta e solenne uscita di scena dell’eroe, la testa chian sullo scudo - il Parsifal ne è il trionfo, ma attraverso l’esperienza del peccato e la vittoria interiore su di esso.
Nessun dubbio può esservi sul fatto che la diretta ispirazione di Wagner sia stata il poema Parzival, di Wolfram von eschenbach, ma quanto davvero vi sia di wolframiano, nell’opera di Wagner, è arduo a dirsi.
Wagner aveva senza dubbio giocato sull’ambiguità tra ritualismo iniziatico di tipo neopagano (il suo Tempio-Castello del Graal, che tanto richiama la chiesa, è in realtà un teatro) e liturgia cristiana; tra le allusioni al peccato, alla penitenza e alla redenzione cristiane e quelle alla colpa e all’espiazione che appartengono piuttosto alla tragedia greca. L’ideolgia di Wagner passò poi a Hitler e al nazionalsocialismo, ma la religione del Graal di Hitler si esauriva principalmente nei reiterati flirts con la famiglia Wagner durante i festival di Bayeruth.

Raiden
00venerdì 8 aprile 2005 20:36
OT doveroso
O metti qualche spazio ogni tanto o ti chiederò i danni per le diottrie sacrificate. ;)

Staurophylaktos
00venerdì 8 aprile 2005 20:59
OT
Lavoro segretamente per un ottico...8)

Hai ragione, sorry.
Staurophylaktos
00venerdì 8 aprile 2005 21:11
8 - L’ambiente dei culti

A partire dagli ultimi decenni dell’ottocento il Graal diventò, quindi, un simbolo conosciuto non soltanto dagli specialisti, ma anche da un pubblico molto più vasto. Anche se la pista dell’interesse crescente per tutto quanto riguarda il medioevo non va trascurata, vediamo ora il ruolo che, nell’elaborazione di una mitologia socialmente diffusa del Graal, hanno giocato i movimenti a carattere esoterico.

Negli ultimi due secoli sono nate in occidente diverse migliaia di nuovi movimenti religiosi. La sociologia ha attirato l’attenzione sull’esistenza, alle spalle di questa fioritura, di un cultic milieu, un ambiente dei culti, una sorta di calderone a cui si interessano masse crescenti di persone affascinate da idee nuove o alternative, da cui emergono continuamente nuovi movimenti religiosi e in cui ricadono i detriti dei gruppi che - nella lotta darwiniana per la sopravvivenza che si sviluppa tra migliaia di organizzazioni e di sigle - soccombono e non riescono ad avere successo. All’interno del cultic milieu un ambiente particolare è il milieu “magico”, da cui nasce quel tipo particolare di nuovi movimenti religiosi che vengono detti “nuovi movimenti magici”. Essi organizzano una socializzazione dell’esoterismo intorno a una serie di miti fondatori, nei confronti dei quali viene rivendicata una discendenza per via di successione (tramite una catena iniziatica segreta che non si sarebbe mai interrotta nel tempo) o almeno d’ispirazione ideale. I miti fondatori più diffusi si riferiscono all’Egitto, ai Rosacroce, ai templari, agli gnostici, ai catari e - appunto - al Graal.

In teoria è possibile distinguere diverse famiglie di nuovi movimenti magici a seconda del mito fondatore prevalente: neo-gnostici, neo-templari, neo-rosacrociani, e così via. Ma - a differenza di quanto avviene prevalentemente nel mondo dei nuovi movimenti religiosi in senso stretto - i fedeli dei nnuovi movimenti magici praticano la doppia, la tripla, la multipla appartenenza. Non soltanto la stessa persona apparterrà spesso a più di un movimento, ma lo stesso movimento farà riferimento a un intreccio di miti di fondazione. Nei movimenti neo-rosacrociani troviamo di frequente riferimenti anche ai templari, agli gnostici, alle piramidi; e nei movimenti neo-templari raramente mancherà un riferimento ai rosacroce o al Graal.

Quattro fonti meritano in particolare di esser menzionate per l’influenza che hanno esercitato sulla ricezione del simbolo del Graal nel mondo dei nuovi movimenti magici. Anzitutto - e di certo è l’influenza dominante - l’arte e la musica. E’ difficile trovare un movimento magico che, quando parla del Graal, non faccia riferimento - dichiarandolo o no - a Wagner e alle sue opere Lohengrin e Parsifal. Alcuni movimenti propongono, anzi, un vero e proprio culto di Wagner. Né si deve sorrovalutare l’influsso della pittura dei preraffaelliti e in particolare di Dante Gabriele Rossetti, che si è sovente ispirato al Graal e al ciclo arturiano per i suoi dipinti.

La seconda influenza è quella della psicologia del profondo, a partire da Jung e dai suoi allievi, per cui il Graal diventa un centro di meditazione interiore che ciascuno di noi può riscoprire, dove potrà ascoltare la voce degli archetipi divino più profondi che ha un’importante funzione anche da un punto di vista terapeutico (il Graal in fondo era una coppa guaritrice).

In terzo luogo ci sono gli influssi sull’ambiente magico del Graal della letteratura e del cinema proposto da autori come Rohmer, Cocteau, senza escludere che alcuni movimenti contemporanei siano influenzati anche dai romanzi stile Marion Zimmer Bradley o da film come Excalibur.

Infine, l’ambiente dei nuovi movimenti magici tiene conto anche degli studi scientifici e accademici sul Graal, tanto più da quando sono diffusi da una vasta propaganda editoriale.

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