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Il Santo Graal

Ultimo Aggiornamento: 14/04/2005 18:27
02/04/2005 16:59
 
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3 - Fortuna di un mito

Il Conte del Graal ebbe un immediato successo. Intorno al 1200 Robert de Boron scrisse in versi il Roman de l’Estoire du Graal, chiamato anche Joseph d’Arimathie. Con Robert si perde parte della caratterizzazione celtica della storia - la feerie del viaggio nel Regno del Graal, e la storia diventa più marcatamente cristiana, ispirata a scritti come il Vangelo di Nicodemo, fondato sulla Passione e sull’Eucarestia.
Visto che Chretién aveva lasciato incompiuto il Perceval, tral il 1200 e il 1230 vi furono quattro “continuazioni” in versi, tutte anonime. Nella vicenda sono sviluppate sia la matrice cristiana che quella celtico-meravigliosa, probabilmente a causa delle sovrapposizioni avvenute nei decenni.
La prima continuazione vede protagonista Gauvein, che nel testo di Chretién ricopriva un ruolo minore. Nella seconda continuazione, da molti attribuita a Wauchier de Denain, il protagonista è Perceval; il Graal è qui totalmente cristianizzato, essendo il calice che raccoglie il sangue di Cristo. Il probabile autore della terza cotinuazione, Manessier, torna a temi più spiccatamente celtici, come il tema della vendetta, mentre il quarto, che si ritiene fosse Grbert de Montreuil, torna agli elementi cristiani.
Nel frattempo, tra il primo e il secondo decennio del XIIIsecolo, il racconto veniva raccolto da un poeta tedesco, Wolfram von Eschenbach, il cui Parzival immette nel tessuto narrativo degli elementi di tipo orientale, al posto di quelli celtici che erano estranei alla tradizione germanica.
La principale differenza risiede nello stesso Graal, che viene presentato come una pietra:
[…]“Poi veniva la regina: volto aveva luminoso come l’alba, pensò ognuno. Era bello anche il suo abito di preziosa seta araba. Portò un verde drappo d’achmardi e il più bel gioiello del cielo, fonte e meta d’ogni gioia. Questa cosa è detta il Graal, segno d’ogni bene in terra.”[…]
Nel Parzival come in Chretién l’eroe viene spesso posto davanti all’errore; non solo, per pietà, evita di formulare a Amfortas (il Re Pescatore) la domanda relativa al suo dolore, ma giunge ad allontanarsi da Dio e a farsene nemico prima della redenzione: in un Muntsalwasche che era perduto e ora viene ritrovato, egli pone finalmente al Re Ferito la domanda liberatrice. Amfortas guarisce d’incanto mentre i cavalieri riconosco in Parzival il nuovo re.
La sacra reliquia, qui, non è la coppa che contiene l’ostia, né il calice dell’Ultima cena e di Giuseppe d’Arimatea: è invece una pietra preziosa, la Pietra Angolare figura del Cristo stesso, il Lapis associato nell’area germanica alla pietra incastonata nella corona imperiale e detto al tempo stesso der Waise (l’orfano, quindi l’unico) e der Weise (il saggio)..
Wolfram chiama il Graal lapis exillis, che viene spesso fatto derivare da lapis elisir, interpretabile come “pietra filosofale”, o da lapis ex coelis, avvicinandola alla gemma caduta insieme a Lucifero durante la cacciata dal Paradiso.
Nel filone del Graal si inseriscono anche il Peredur, racconto in prosa gallese che richiama molto il Perceval di Chretién, il Perlesvaus, nel quale appare anche Lancillotto, oltre ad Artù e Galvano, il Didot Perceval dello Pseudo Robert de Boron, e gli anonimi Queste del Saint Graal e Estoire del Saint Graal.
Entro la metà del duecento, quindi, la “cerca” del Graal era un filone letterario noto e ricco di varianti: suo oggetto, la cerca del prodigioso vaso da parte dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Attraverso questi racconti l’Inghilterra anglonormanna si collegava strettamente con un altro piano e un’altra realtà storica, proprio a partire da quella seconda metà del XII secolo che aveva visto i sovrani d’Inghilterra ambire alla leadership della crociata. La missione era compiuta, era stata data sacralizzazione alla corona, tramite addirirrura l’Ultima Cena.
Si è quindi potuto ipotizzare che alla base della storia del Graal vi fosse un messaggio crociato, dopo che nel 1187 il Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, e quindi era andato perduto il Santo Sepolcro.
Il Graal, come calice dell’Eucarestia, era quindi il cuore della Vera Gerusalemme, raggiungibile anche se quella terrena era perduta.
Tanto che Wolfram mette come custodi del Graal addirittura i Templari, nel castello chiamato Muntsalwasche. Questo nome è di solito interpretato come “Monte Selvaggio”, ma sembra più probabile “Monte della Salvezza”, che richiama il Monte Moriah sul quale Abramo aveva allestito il sacrificio del figlio, e su cui Salomone aveva eretto il Tempio.
Ora, la militia pauperum militum Christi, che noi chiamiamo Ordine Templare, aveva la sua sede originale proprio dove sorgeva il Tempio di Salomone. E’ quindi molto significativo che Wolfram si riallacci alla tradizione templare, descrivendo il Graal come una pietra. Si tratta di un’allusione a Cristo come Pietra Angolare; ma al tempo stesso alla pietra del sacrificio del Monte Moriah, che i biblisti associano al Calvario. Come già detto, pietra in area germanica associata alla gemma posta in cuspide alla corona imperiale degli Ottoni.
Alla luce del Graal valutato non come oggetto fiabesco, bensì come reliquia della Cena, si reinterpretarono anche reliquie che la cristianità conosceva da molto tempo. Si creava così un problema: il Graal era un oggetto mitico, un recipiente scomparso, oppure una reliquia ancora visibile e venerabile? Per quanto possa sembrare assurdo trattare il Graal come una “reliquia”, esistono tuttavia oggetti sui quali si è addensata una tradizione gradalica e che quindi, in un modo o nell’altro, ben lo rappresentano.

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