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[racconto] La città degli Angeli

Ultimo Aggiornamento: 24/01/2006 12:02
23/12/2005 13:32
 
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Fa freddo nella città degli angeli. Mike si stringe nel suo cappotto mentre aspetta Jhonny, il capello ben calcato sugli occhi.
"Michele, Mike, come l'arcangelo u vogghiu chiamare a me figghiu", disse suo padre prima di beccarsi quel colpo di 44 in corpo. Le ultime parole erano per lui, o almeno così gli avevano detto. I fottuti irlandesi lo avevano ucciso come un cane, prendendolo alla sprovvista. Piccoli bastardi coi capelli rossi. Non avevano ancora capito che il loro tempo era finito. E non c'era niente di più irritante per Mike di un attore che cerca di rimanere sulla scena quando la sua parte è finita.
La strada è male illuminata, la luce sfarfalla in un lampione.
Che tempo di merda. Dov'è Jhonny? Stasera c'è Frank al Cotton Club se me lo fa perdere lo ammazzo. Quel ragazzo farà strada, se Dio cantasse, canterebbe come Frank.
Delle note si alzano da una strada laterale. Un negro suona un blues maliconico. Mike si avvicina e gli lancia alcune monete nel cappello. Suona bene, è pur sempre un musicista.
"Non fermarti cioccolatino" lo incita Mike.
I suoi pensieri viaggiano sulle onde della musica. Quella Mary, che schianto di donna. Bionda come il grano e con gli occhi verdi come l'estate. I suoi passi erano samba, il suo profumo primavera. Bella ragazza Mary. Peccato per quella storia di alcol e neve. L'inverno rovina l'estate, avrebbe dovuto saperlo Mary.
Ma dove cazzo è finito Jhonny?
"Non fermarti amico" borbotta Mike buttando un altro quarto di dollaro nel cappello del negro.
Jo era un bravo ragazzo. Erano cresciuti insieme sulle strade di LA, giravano col le caddy, rimorchiavano le donne e pestavano gli irlandesi. Chissà perchè era diventato uno sbirro. Un bravo sbirro per carità. Era sempre lì se un suo compaesano era in difficoltà, e si girava dall'altra parte se qualcuno commetteva qualche piccolo sbaglio, ma era un bravo ragazzo Jo, e uno sbirro è pur sempre uno sbirro.
Però andava a giocare a carte con loro e beveva whisky anche se non si può. Povero Jo, coinvolto in quell'inchiesta dei federali. Adesso marciva in qualche cella del cazzo, "devo fargli visita per Natale al vecchio Jo" pensa Mike.
Adesso si ci mette pure il vento. Il soprabito di Mike serpeggia come le code di un'aquilone e lui è costretto a tenersi il cappello con la mano.
Ma il negro non smette di suonare.
Non aveva mai visto il paese Mike. Così lo chiamava sua madre. Il paese, qulli del paese. Loro ormai erano "gli americani" per quelli del paese, qualche volta gli spedivano un pacchetto di sigarette o la cioccolata, la carne in scatola, qualcos'altro che lì non avevano. Le cose non vanno bene al paese ora. Dicono che c'è un tizio che comanda a cui non sono simpatici gli americani. E al presidente non è simpatico lui. Finchè si fa gli affari suoi a Mike non sta antipatico. Ma si dice che non vuole che si ascolti la musica di Frank, e che c'è gente lì che picchia quelli non sono d'accordo. E a Mike questo non va tanto bene. Ma queste sono cose che deve decidere il presidente, è il suo lavoro.
Ecco. Arriva Jhonny. Mike lo vede da lontano avvicinarsi con quel suo sorriso che sembra dire "va tutto bene amico", anche se è nella merda. Devono fare un lavoro stasera, e come al solito a Jhonny va tutto bene. Mike si è abituato a fare i lavori. Non va tutto bene quando deve farli, ma ormai sopporta. Sente la fondina premergli sul petto, e questo gli da sicurezza.
Forza Jhonny facciamo in fretta, che tra poco è Natale, non voglio fare lavori a Natale.
Fa freddo a LA, ma Dio lo sa che fa così freddo nella città degli Angeli?

[Modificato da K4oS 23/12/2005 13.37]

20/01/2006 00:53
 
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“Tutto a posto Charlie?”
Charlie non risponde. Guarda la sua tazza di caffé con gli occhi spenti mentre la sua sigaretta si consuma nel portacenere. I suoi pensieri si affannano in vicoli scuri e squallidi. Quanti cadaveri hai trovato in luoghi come quelli, eh Charlie? Non può fare a meno di pensarci, quando ci passa davanti. Deve fermarsi a guardare, a pensare, per qualche secondo. Più la lista si allunga, più la nausea cresce. Cadaveri seminati dai mafiosi, dai delinquenti, da lui stesso.
Non può fare a meno di pensarci. “Fermo” gli aveva urlato, ma quello non si era fermato. L’aveva guardato con uno sguardo animalesco, pieno di vita, lui giovane, scattante e nero. Appena quindicenne. Bellissimo. Veloce. Troppo veloce. In un secondo è su di lui, Charlie senti il suo fiato sul suo volto. Puzza di alcool e tabacco, odori di un’infanzia rubata. Charlie vede una lama d’acciaio luccicare nelle mani del ragazzo. Il suo istinto fa il resto. Lo sparo gli rimbomba nelle orecchie e qualcosa di caldo gli scivola sul corpo e gli bagna la camicia. Dio era solo un ragazzo. Dio.
“Come si ci sente ad uccidere una persona Charlie?” domanda del cazzo. Il tipo di domanda a cui non vorrebbe mai rispondere. La domanda che suo figlio non dovrebbe mai fargli. Se avesse un figlio. Se avesse una famiglia da cui tornare in questa fredda notte nella città degli Angeli. Il suo lavoro lo ha consumato, lo ha reso cinico e senza speranza. Non vuole mettere a mondo altre persone per farle vivere in questo inferno mascherato da paradiso.
Charlie manda giù la sua medicina per la memoria. Per dimenticare intendo. Ma non basta.
Aspira dalla sigaretta, tossisce, sputa. Sa che prima o poi quella roba lo ucciderà, ma non importa. Ha vissuto abbastanza, ha visto abbastanza per tre vite a venire. Ci credeva quando era entrato in polizia, pensava veramente di poter fare qualcosa per gli altri. La sua promozione ad ispettore, tutti quegli arresti. Ma poi si era reso conto. La polizia è corrotta. I politici sono corrotti. I giornalisti sono corrotti. La città stessa è marcia al suo interno, infestata da parassiti che le succhiano il sangue. E, dietro il paravento di perbenismo, gli stupri, la droga, le puttane bambine e il ragazzo nero.
Alcuni sopportano o fanno vinta di non vedere, ma Charlie non ci farà mai l’abitudine. I tempi cambiano, dice la radio. Si ma gli stronzi rimangono sempre gli stessi. E non andranno mai dentro.

24/01/2006 12:02
 
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Jen si cinge le spalle con le sue manine. Ha freddo. E paura. E vuole la sua mamma. E’ buio e la tengono in quella stanza da… non saprebbe dire da quanto tempo. Singhiozza sommessamente ma non piange Jen. La mamma le ha detto che non bisogna piangere nelle situazioni difficili, se non vuole che gli altri si approfittino di lei. Perché l’hanno portata in quel posto? Non sa spiegarselo. Sa solo che degli uomini la hanno afferrata e gettata nel bagagliaio di un’auto scura, poi la hanno rinchiusa dentro quell’orrido stanzino che puzza d’urina. “Pensa a qualcosa di bello, pensa a qualcosa di bello” sussurra a se stessa Jen per farsi forza. Pensa alla bici nuova che papà ha promesso di regalarle per natale, pensa all’albero addobbato, alla cena con i nonni, alle canzoni che cantano tutti insieme.
Ma la paura non svanisce. E’ troppo giovane Jen per capire, non sa cos’ha fatto per essere lì, perché quegli uomini hanno preso proprio lei. Lei come qualsiasi altra, non avrebbe molta importanza per loro, ma Jen non lo sa. E’ ancora troppo piccola per provare rabbia, ha solo paura.
Siede sul pavimento di cemento e trema.
Jen, proprio Jen, quella bambina sempre sorridente, sempre felice. Quella bambina-donna, al tempo stesso infantile e austera, bionda come il grano e candida come il latte. Jen, la bambina americana per eccellenza, e forse per questo scelta e condannata.
Jen sente uno sferragliare di serrature. Stanno venendo di nuovo. Forse la porteranno dalla sua mamma. Prega perché sia così. La porta cigola. Uno spiffero ancora più freddo e tagliente la investe. E’ buio anche fuori. Non si vede bene. Scorge solo un uomo. Un uomo dal sorriso triste.

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