00 24/01/2006 12:02
Jen si cinge le spalle con le sue manine. Ha freddo. E paura. E vuole la sua mamma. E’ buio e la tengono in quella stanza da… non saprebbe dire da quanto tempo. Singhiozza sommessamente ma non piange Jen. La mamma le ha detto che non bisogna piangere nelle situazioni difficili, se non vuole che gli altri si approfittino di lei. Perché l’hanno portata in quel posto? Non sa spiegarselo. Sa solo che degli uomini la hanno afferrata e gettata nel bagagliaio di un’auto scura, poi la hanno rinchiusa dentro quell’orrido stanzino che puzza d’urina. “Pensa a qualcosa di bello, pensa a qualcosa di bello” sussurra a se stessa Jen per farsi forza. Pensa alla bici nuova che papà ha promesso di regalarle per natale, pensa all’albero addobbato, alla cena con i nonni, alle canzoni che cantano tutti insieme.
Ma la paura non svanisce. E’ troppo giovane Jen per capire, non sa cos’ha fatto per essere lì, perché quegli uomini hanno preso proprio lei. Lei come qualsiasi altra, non avrebbe molta importanza per loro, ma Jen non lo sa. E’ ancora troppo piccola per provare rabbia, ha solo paura.
Siede sul pavimento di cemento e trema.
Jen, proprio Jen, quella bambina sempre sorridente, sempre felice. Quella bambina-donna, al tempo stesso infantile e austera, bionda come il grano e candida come il latte. Jen, la bambina americana per eccellenza, e forse per questo scelta e condannata.
Jen sente uno sferragliare di serrature. Stanno venendo di nuovo. Forse la porteranno dalla sua mamma. Prega perché sia così. La porta cigola. Uno spiffero ancora più freddo e tagliente la investe. E’ buio anche fuori. Non si vede bene. Scorge solo un uomo. Un uomo dal sorriso triste.