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Racconto: Incubi

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2005 15:21
06/10/2005 15:20
 
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INCUBI

di Khuzul - carpatya@gmail.com


1.

Mi svegliai di soprassalto.

Al solito, l’incubo aveva lasciato poche tracce di se impresse nella mia psiche, la più evidente delle quali consisteva in un certo senso di disagio misto alla spossatezza che sempre accompagna il risveglio da un sonno agitato.
Era ora di nutrirsi, la mia fame si stava rivelando incontrollabile. Certo stare in questo luogo schifoso non mi ha mai aiutato a contenere ne a soddisfare i miei bisogni nutrizionali.
Dopo essermi precipitato alla dispensa, ne aprii la porticina, schiantandone una delle ante contro il grosso scaffale vicino.
Da lontano, smorzato dallo spessore dell’antico muro portante, giunse il muguglio che indicava il risveglio del mio coinquilino.
Presi a casaccio qualche pazzo di cibo, e in breve mi ritrovai ad ingurgitare della carne salata, secca e dura come la suola degli consunti stivali che indossavo da non so quanto, e delle gallette lezzose.

Bhe, avevo fame.

Placato il mio primordiale istinto, stetti teso ad ascoltare i passi che componevano nella mia mente la via percorsa dal mio coinquilino sulle fredde lastre porfiriche che pavimentavano tutto l’alloggio.
Staccai dall’armeria in larice il primo ferro che le mie mani incontrarono, mantenendo fisso lo sguardo alla porta che ammetteva nello stanzino.

Egli entrò.

- Ciao!
- Ciao.
- Come va oggi, fratellino mio?
- Bene.

Aprì le sue fauci maleodoranti, mostrando la triplice fila di denti – tutti canini di un malsano colore giallastro.
Il suo alito caldo e mefitico raggiunse i miei sensi, inebriandoli del disgusto stesso che ad ogni mio risveglio andava ripugnando la mia anima pura di uomo di Dio e guardiano della Bestia.
- Stai indietro, fratello. – dissi. Il tono della frase non fu dei più felici, si capiva lontano un miglio che ero teso come la corda di un violino.
- Oggi no.
Mi venne vicino. La spada mi scivolò tra le mani e la lama a doppio filo, pur non affilata a dovere a causa dell’incuria degli altri aguzzini, passò la guardia offertami dal guanto di cuoio e si produsse in una ridicola caduta che ebbe come effetto quello di recidere la mia pelle delicata, le carni del mio pollice, un tendine.
- Ti sei tagliato fino all’osso – disse, mentre il suo corpo deforme veniva scosso da un tremito evidentemente in contrasto con la dolcezza delle parole e col volto di bambino attaccato esattamente alla biforcazione del collo.

- Non è nulla.

Ed infatti non era nulla…un taglio, qualcosa di guaribile. Mi balzò addosso, ed ero ora senza spada.

2.

- Svegliati…
- Svegliati!

Socchiusi gli occhi pian piano.

- Sarebbe anche ora di andare al lavoro, lo sai?
- Ho avuto un incubo!
- E chi se ne frega dei tuoi incubi, se non vai al lavoro chiamano a casa!
- Okay okay..

Mi rigirai sulla panchina. Gli spazi tra le stecche di legno veniciato scomodavano le mie membra intirizzite. Faceva freddo, fouri dal bozzolo di coperte e fogli di nylon che mi tratteneva sul piano della panchina, impedendomi di cadere.
- Testa di cazzo, ma sei scemo? – urlai iroso, inveendo contro il mio compare, che intanto stava ridendo come un’idiota, con quella faccia rubizza contornata dalla barbetta incolta.
Era evidentemente stupido. Enormemente stupido. La cosa balzava all’occhio meno esperto in tutta la sua interezza e con tutte le sue implicazioni. Ma era pur sempre un compagno di sventura, vivo come me in un mondo crudele, che meritava compassione e redenzione. Cercai di addolcire i miei toni e di pacare il mio animo facendo appello a tutta la mia forza di volontà.
- Hey, non faceva affatto ridere. – mi espressi con troppa freddezza, ma dovevo perseguire i miei scopi.
- Ma si che faceva ridere! Dai, un barbone svegliato da un altro barbone che gli dice di andare a lavorare! E poi, avevi una faccia! – era ilare, il che mi urtava. Avrei di gran lunga preferito non essergli così simpatico, visto quello che avevo in mente.
Sorrisi.
Anche lui sorrise, mentre io già tornavo ai miei pensieri e cercavo la forma familiare del mio attrezzo da lavoro nella tasca anteriore destra dei vecchi pantaloni, che per l’occasione avevo sgualcito ad arte.
- Hahahah sembri proprio un barbone – proruppe in una risata al confine tra eccessivo divertimento ed isteria, che la diceva lunga sul suo stato mentale. Era evidente che mi stavo fingendo barbone per uno scopo positivo, il mio compare era totalmente pazzo ed andava sanato.
Con calma, scostai le coltri cha ancora mia avvolgevano stando bene attento a celare la sagoma del rasoio dietro il palmo della mia mano. Mi avvicinai con un sorriso al pazzo.
- Ti devo epurare. – dissi.
- Cosa? Hahaha depurare, che sei un dottore che parli così? – Continuava a ridere. La sua follia evidenziata dagli occhi troppo azzurri che mandavano lampi di insana curiosità, correndo rapidi da me all’albero vicino alle panchine.
- Fai ammenda dei tuoi peccati, che Dio possa accoglierti in seno a se, tu vivrai in me come parte dell’epuratore, sarai mio nutrimento ed i tuoi peccati verranno espiati tramite la mia gloriosa opera.
Mi ritrovavo sempre a mormorare la frase di rito con le labbra strette, di modo che il mio interlocutore di rado comprendeva ciò che essa significava.
Un breve movimento circolare del polso, seguito da un movimento simile ma più ampio del gomito, accompagnato dallo scatto secco della sottilissima lama.
Seguendo i principi della biomeccanica, la scienza dell’azione umana perfetta secondo il rigore logico che Dio ha impresso alle cose viventi tutte, avevo ancora una volta eseguito un rituale eccellente. La gola del mio compare venne squarciata all’istante, consentendogli di esprimere le sue ultime preghiere – sono sicuro fossero preghiere, giacchè lo stavo redimento – sotto la grottesca forma di uno strozzato gorgoglio, che si conformava all’impurità della sua anima.
Quando smise di pregare, cominciai a mangiare il suo bicipite sinistro.
Comicio sempre dal bicipite sinistro.

3.

Mi svegliai con la bocca impastata, invasa da un sapore metallico, come di ruggine. Fuori il tempo non era migliore di quello che avevo lasciato per addentrarmi nel mondo di Orfeo. Pioveva da giorni. L’unica cosa che potevo fare, oltre a guardare dalla finestra, era pensare.
Il soffio del respiratore che mi gonfiava e sgonfiava i polmoni con ritmo innaturalmente preciso mi infastidiva.
Sporsi il mento verso la cannuccia di controllo, tentando di afferrarla tra i denti. Troppo lontana, si doveva essere spostata durante la notte, in un modo o nell’altro.

Avevo sete.

Il fatto di non poter parlare mi pesava alquanto. Dopo l’incidente mi ero lentamente abituato a tutto della mia nuova condizione, crogiolandomi un po’nelle attenzioni che tutti mi riservavano. Solo il non poter comunicare mi stava realmente a noia.
Sapevo che la dolce Melisse sarebbe arrivata tra qualche ora e mi avrebbe avvicinato la cannuccia alla bocca, e sapevo anche che probabilmente mio fratello si sarebbe fatto vivo prima di allora, che passava spesso prima di recarsi al lavoro.

Nonostante tutto ciò, ero in preda ad una vaga sensazione d’angoscia.

Sei ore, ventiquattro minuti e quindici secondi dopo, stavo guardando l’orologio infisso sulla parete direttamente in fronte ai miei occhi, ed ascoltavo con involontaria attenzione i rumori intersecati del respiratore e delle lancette.
Scatti secchi sullo svalvolare del macchinario che mi donava la vita, minuto dopo minuto, producevano un ritmo sincopato che mi portava alla mente quelle danze tribali che spesso il potere mediatico ci porta a giustificazione della barbarie di popoli inferiori.

Li vedevo ballare, scoordinati e felici.

Qualche minuto dopo caddi addormentato, questa volta sperando di sognare.

4.

Giacchè tutti sappiamo come va il mondo, non sarà una sorpresa per voi come non lo fu per me constatare che mi svegliai nel cuore della notte senza che la minima immagine avesse sfiorato il mio subconscio da sì vicino da rimanere impressa nella mia memoria.
Sentivo ora le mie labbra unite in una cosa sola, come di gomma. I led del respiratore illuminavano la stanza debolmente, ma quel tanto che bastava da far risplendere la cannucca semitrasparente lontano dalla mia bocca.

Troppo lontano.

Mi accorsi subito che era più lontana rispetto a quando mi ero addormentato. La sete ora non era più un fastidio, era un tormento. Cercai di contrarre la lingua contro il palato per cercare di stimolare le ghiandole salivari a produrre qualche goccia di prezioso liquido.

Nulla da fare.

Ma dov’era finita Melisse? E mio fratello? Aprii la bocca e rimasi fermo spalancandola in un grido silenzioso. La figura uscì dall’ombra dell’angolo vicino alla finestra. Aveva i contorni rossi per via delle luci rosse dei led. Aveva i contorni troppo rossi, e si allargava. Tutta la figura era rossa, e si avvicinava invadendo il mio campo visivo. Strano, vedevo tutto rosso anche con le palpebre ben chiuse, a riparare la fragile sfera degli occhi troppo secchi, che sentivo infissi nel mio cranio come corpi estranei.

- Lascia che la vita voli via – sussurrò la voce di mio fratello – e che l’eredità sia mia.

Era sempre stato un filastrocchiere.

- Mia e di Melisse.

5.

Mi sono svegliato davvero solo qualche minuto fa. Già da un po’di tempo mi accade di fare questi bizzarri sogni annidati l’uno nell’altro.

Credo sia interessante mettere la notturna esperienza nero su bianco, che qualcuno prima o poi possa interpretarla per me, che sono profano alla scienza dell’anima.

Comincio indi a scrivere rapido, facendo correre la penna sulla bianca distesa del foglio, segnandolo di tratti nervosi e vermigli che spero anche per voi abbiano il significato che con tutto me stesso tento d’imprimergli.

C’è solo un problema, tendo a mordicchiare l’estremità delle penne con cui scrivo. E questa in particolare, dal cappuccio di gomma strappato mi mostra una piccola propaggine su cui è infissa una minuscola testa di bambino, che ora mi guarda.

- Che hai da guardare? Non vedi che sono solo una penna? Continua a scrivere! – mi dice, sorridendo.

[Modificato da Gornova 06/10/2005 15.21]

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